resizeDopo l’articolo dedicato alle statistiche dei sinistri ed ai Near Miss, proponiamo ai nostri lettori un’altra interessante intervista, questa volta dedicata alla formazione, ai sinistri nonché alla sicurezza.

 

Per fare questo il nostro Perito Navale Daniele Motta, ha intervistato il Prof. Antonio Caputo, Dottore in Discipline Nautiche, il quale ha una grande esperienza nella formazione e sullo studio dei sinistri e della sicurezza Marittima.

 

DM - Professore, iniziamo da un argomento caldo e molto sentito anche dai nostri lettori, come sta andando la formazione nautica, per quanto riguarda gli ex Istituti Nautici e la formazione a bordo, almeno rispetto ad altre realtà, magari estere?

 

AC – La domanda è molto interessante e più che attuale, non per niente, solo per fare un esempio, Confitarma, da pochi mesi, ha attivato la Commissione Education, senza parlare dell’EMSA e dei suoi audit ad alcuni Nautici del nostro Paese svolti nel 2007 e lo scorso maggio.

 

L’Italia ha una grande tradizione nell’istruzione nautica, molti Nautici, preferisco chiamarli alla vecchia maniera, hanno alle spalle un’attività più che centenaria, il che vuol dire che per decenni e decenni hanno dato il meglio che si poteva offrire nel campo dell’istruzione nautica. Un’istruzione nautica che, il più delle volte, si è basata solo su basi scientifiche. Io stesso ho frequentato una facoltà “scientifica”, la facoltà di Scienze Nautiche dell’allora Istituto Universitario Navale di Napoli, dove l’esame di navigazione, per l’esattezza “Navigazione e magnetismo navale I” non era altro che un esame di matematica.

 

In maniera del tutto simile ci comportavamo (o ci comportiamo?) noi insegnanti di navigazione con i nostri studenti ai quali, per esempio, chiedevamo la dimostrazione della latitudine crescente.

 

Era una metodologia ereditata dal passato, dal lontano passato, metodologia che, negli anni ’80, quando ho iniziato ad insegnare poteva andare ancora bene. Ma qualcosa stava già cambiando. Un mio docente del Navale, che aveva intuito quella che poi si dimostrò una grande verità, all’ultimo anno di corso, nel 1981, mi fece fare un imbarco su di un merce varia della Flotta Lauro, una navigazione dall’Italia al Golfo Persico e ritorno, per fare pratica a bordo e vedere come funzionava la navigazione e soprattutto, una nave “vera”.

 

In quegli anni, stavano cambiando le navi. Le navi, oramai, non erano solo un motore e qualche stiva, erano molto di più. In rada a Kuwait vidi le prime full containers e delle ro-ro che, al contrario del nostro merce varia, entravano subito in porto e dopo 24 ore, o meno, riprendevano a navigare in men che non si dica contro le tre settimane, tra rada e banchina, che ci ha impiegato la nave dove ero imbarcato.

 

Oggi, che viviamo al 100% nell’epoca delle navi ad alta tecnologia, con equipaggi figli anche loro della globalizzazione, quel modo d’insegnare è più che sorpassato anche perché la nave non può più essere considerata solo un sistema tecnico ma è e “deve” essere considerata, un sistema tecnico – sociale anzi, si potrebbe dire, senza essere smentiti, più sociale che tecnico visto che la navigazione avviene grazie a delle interazioni sociali che vedono al primo posto la comunicazione a due vie fra i diversi componenti del sistema nave.

 

Una nave da crociera, anche di grosso tonnellaggio, oggi viene costruita in due anni, mese più mese meno, ma il comandante che la comanderà non viene istruito e formato nello stesso periodo, forse dieci anni non bastano. Cosa voglio dire con ciò? che l’elemento umano regna sovrano, è “il problema” di questi anni ed è inutile far finta di niente o ignorarlo. Non a caso alcuni armatori sono entrati come soggetti attivi negli ITS, Istituti Tecnici Superiori, come l’Accademia Italiana della Marina Mercantile di Genova, fornendo docenti ed imbarchi agli allievi.

 

La centralità dell’elemento umano rende obbligatorio cambiare la metodologia con cui si insegna nei Nautici. L’EMSA, ma dovrei dire la STCW, ha fatto sì che tutti i Nautici hanno un sistema di gestione della qualità. Con la certificazione ISO 9001 abbiamo un’organizzazione della didattica, un vero “contenitore” di procedure, inattaccabile, che non si basa su l’auto-referenziazione, così com’è avvenuto sino a pochi mesi orsono. Adesso i Nautici hanno una valutazione, un giudizio, del loro operato ripetibile e riconosciuto a livello internazionale.

 

Quello che, a mio parere, manca è il “contenuto” e sono in molti ad essersene accorti, primo fra tutti il MIUR, e questo sarà l’aspetto da realizzare e da formalizzare nel modo migliore nell’immediato futuro, cercando efficacia ed efficienza visto che le ore dedicate alle materie d’indirizzo sono state ridotte all’osso.

 

Ciò è avvenuto, sta avvenendo in un sistema scolastico, quello dell’istruzione secondaria superiore, che non è più paragonabile a quello degli anni ’80, come dicevo prima con riferimento ai soli Nautici. Oggi il livello culturale in uscita dei diplomati è molto basso a meno che ci riferisca a diplomati con voti medio alti. Si badi bene che lo si riscontra nei licei ed in tutti gli altri istituti. Certamente, il diplomato uscito dalla scuola con un 60/100 può mettersi a studiare e magari laurearsi ma la valutazione che viene fatta nella secondaria superiore è un’istantanea della preparazione che lo studente ha dimostrato di possedere al momento dell’esame e, lo ripeto, in certi casi è molto bassa.

 

E veniamo a ciò che avviene a bordo. Il programma di addestramento che gli allievi devono compiere in 12 mesi d’imbarco risente non solo delle conoscenze in uscita dal mondo della scuola ma anche dal livello di conoscenza che troverà fra gli ufficiali di bordo, ufficiali, in molti casi, costretti a stringere i denti per poter andare avanti nella vita di tutti i giorni dove il rest period è solo un sogno e non una realtà.

 

Se l’allievo è fortunato troverà a bordo il suo mentore, ecco un altro aspetto del cosiddetto elemento umano, ma in molti casi ciò non avviene e il training record book non so proprio come possa essere stato compilato e firmato.

 

L’accordo del 30 luglio scorso tra Confitarma e i Sindacati firmatari, a pagina 2 così recita riferendosi all’allievo:”…il suo percorso formativo /di addestramento è attuato sotto la responsabilità dell’ufficiale di addestramento di Compagnia e l’ufficiale per l’addestramento a bordo designato dall’impresa armatoriale (STCW 78/95 come emendata dalla Convenzione di Manila 2010, Cap.II e Cap.III Parte B).” dovrebbe far migliorare la qualità dell’addestramento di bordo ma se l’allievo, alla fine, sarà costretto, ancora una volta, a smarcare i containers imbarcati/sbarcati per venti ore o più sul ponte di coperta, non so fino a che punto si possa raggiungere la suddetta qualità dell’addestramento.

 

Con riferimento all’estero, come richiesto nella domanda che mi ha posto, per risponderle vorrei citare quanto riportato da una ben nota agenzia ligure di crewing durante un convegno tenutosi a Roma lo scorso anno presso il Comando generale delle capitanerie di porto. Una verifica delle competenze STCW portata a termine tra gli ufficiali gestiti dalla suddetta agenzia ha evidenziato una valutazione sub – standard, cito a memoria ma la sostanza è questa, da parte degli ufficiali italiani rispetto agli ufficiali di altre nazionalità che sono stati valutati in linea con gli standard richiesti dalla convenzione citata.

 

Probabilmente non parliamo di grandi numeri, forse il campione esaminato non era valido dal punto statistico ma queste valutazioni dicono abbastanza: c’è ancora molto lavoro da fare sia a terra, nei Nautici e nei vari centri di formazione (basic training, radar, arpa, gmdss, etc.) sia a bordo.

 

Ad ogni modo, è bene ricordarlo, che la nostra marineria non è l’unica che perde navi o che provoca sinistri.

 

DM – La formazione è direttamente correlata alla crescita delle imprese operanti nel settore Marittimo ed alla safety. Quanto può influenzare, secondo lei, questo elemento sempre in riferimento alla sicurezza ed ai sinistri navali?

 

AC –Le vorrei risponderecon un esempio “terragnolo”, mi scuso per il termine. Il D.lgs n.81/2008 detta le norme vigenti in materia di sicurezza del lavoro. Ogni azienda, per fare un esempio, ha l’obbligo di formare gli “Addetti prevenzione incendi” facendogli seguire appositi corsi antincendio in funzione del tipo di rischio incendio. Non mi vorrei sbagliare ma ho come l’impressione che, anche se ci trovassimo davanti ad un’azienda in forte crescita, ripeto, operante a terra, a quella azienda importerebbe avere solo del personale certificato. La crescita, leggere “miglioramento continuo”, nella formazione degli addetti citati interesserebbe poco o affatto a meno che l’azienda sia ad elevato rischio incendio e pertanto una formazione ad alto livello qualitativo – quantitativo rientrerebbe nella mission dell’azienda.

 

Nello shipping assistiamo, ma solo in certi settori, a compagnie che stanno sul mercato o ne sono al vertice, che affidano il proprio personale da formare non a caso, non al primo arrivato ma a centri di formazione famosi in tutto il mondo. In alcuni casi, è bene ricordarlo, alcune compagnie fanno rifare al proprio personale neo assunto i corsi già sostenuti nel proprio paese d’origine. Ciò accade, per esempio, ai nostri ufficiali quando passano a navigare con compagnie di nazionalità estera che gestiscono navi da crociera. In questi casi, il personale viene addestrato anche oltre gli standards della convenzione e lo stesso avviene, per esempio, con le dotazioni antincendio di bordo quantitativamente e qualitativamente superiori a quanto dettato dalla SOLAS poiché le compagnie cercano di dotare le loro navi con quanto di meglio la tecnologia possa offrire.

 

Evidentemente queste compagnie hanno fatto della safety il loro business.

 

Il business e la safety, per fare un esempio, sono un tutt’uno nel settore delle petroliere e ciò può essere riassunto con una sola parola: vetting il cui superamento fa sì che una petroliera possa essere noleggiata.

 

Di recente, abbiamo perso una nave cisterna nonostante la safety ed il vetting suddetti. L’eco che questo sinistro ha avuto sui media non ha avuto, certamente, la stessa intensità di quanto avvenuto con la Costa Concordia ma nel mondo dello shipping ha lasciato il segno.

 

Evidentemente la safety non basta soprattutto per una compagnia che sta sul mercato. Cosa manca allora? Se la nave è andata persa evidentemente, a bordo, la cultura della sicurezza non era un bene condiviso. L’elemento umano ha fatto il resto, portando la nave sugli scogli.

 

Quando prima ho affermato che c’è ancora molto da lavorare per migliorare l’istruzione e la formazione nautica, vorrei, se fosse possibile, redigere la vision del sistema d’istruzione e formazione nazionale mettendo al primo posto la cultura della sicurezza, augurandomi che il raggiungimento di questo tipo di cultura non sia solo un sogno da chiudere in qualche cassetto: la cultura della sicurezza non è un concetto astratto tant’è vero che può e deve essere incrementata.

 

DM – Come sappiamo tra il 2012 ed oggi ci sono stati due importanti sinistri marittimi (Concordia e Norman Atlantic) che hanno riguardato molto da vicino il nostro Shipping, secondo lei e fatte sempre le dovute eccezioni, come giudicherebbe il generale standard di sicurezza riguardante il settore Navale?

 

AC –Verso la fine del 2011 sono andate perse delle bulk carriers che trasportavano nickel indonesiano a causa della liquefazione di questo particolare tipo di carico. Il repentino affondamento di queste bulk ci fece meditare profondamente visto che sembrava che si fosse raggiunto un buon livello della sicurezza in campo marittimo a quasi cent’anni dall’affondamento del Titanic. Il nuovo anno, il 2012, lo avrebbe potuto suggellare ed invece…

 

Non voglio entrare nel dettaglio per quanto riguarda la Costa Concordia, troppi in quei giorni, in questi anni, hanno voluto dire la loro avendone o meno le giuste competenze per farlo. Lo stesso lo potrei affermare per la Norman Atlantic.

 

Voglio solo ricordare alcuni commenti al primo report ufficiale redatto dal MIT sul sinistro della Costa Concordia. Ricordo che i commenti postati da gente del settore ma di altre nazionalità, riguardavano gli allarmi dell’ECDIS, allarmi che possono essere di diverso tipo come ben sappiamo. La critica ricorrente era che il report non toccava questo delicato argomento lasciando il lettore nel dubbio: è stata una dimenticanza del personale di bordo o di chi ha redatto il report?

 

L’elemento umano ritorna in maniera preponderante anche in questo sinistro.

 

Sempre sui social network ho letto un commento molto interessante sul sinistro della Norman Atlantic. Lo aveva postato un blogger statunitense, credo un ingegnere navale. Le critiche riguardavano la progettazione della ro-ro che ha, nel ponte quattro, se non ricordo male, un ponte parzialmente chiuso dotato anche di grosse aperture a murata proprio in corrispondenza dei due MES che si trovano nel ponte superiore insieme ai vari LSA. Il blogger criticava l’evidente ricambio d’aria, di comburente, che si era venuto a creare durante l’incendio dei mezzi gommati presenti sul ponte quattro, e questo nonostante in tutti i corsi antincendio si spiega l’ormai classico triangolo del fuoco. Le critiche possono essere mosse al tipo di progetto ma è anche vero che, per certo, una nave ro-ro uguale, stesso cantiere, ha avuto un principio d’incendio ad un TIR rizzato sul ponte 4, propagatosi poi ai TIR limitrofi. L’ incendio, dopo alcune ore è stato spento dal sistema drencher presente a bordo della nave. Certamente questa conformazione del ponte 4, aperto ma chiuso al tempo stesso, è abbastanza atipica.

 

La flotta mercantile nazionale, con riferimento all’intervista del Dott. Manuel Grimaldi, presidente di Confitarma, apparsa sull’ultimo numero della rivista TTM: “Nonostante la crisi, a inizio 2015 sono entrate in esercizio nuove navi”. L’intervista al Presidente di Confitarma conferma una crescita dal 2008 del 21% della flotta che si traduce in un’età delle navi che inalberano il tricolore relativamente giovane.

 

In una nave nuova, appena messa in servizio il rischio di un’avaria non si mantiene costante nel tempo. Nei primi tempi, il numero delle avarie è paragonabile a quello che avrà verso il termine della sua operatività secondo un diagramma detto a “vasca da bagno” (bathtub curve) che ha due massimi all’inizio e alla fine della vita operativa della nave ed un minimo per quasi tutta la durata della vita operativa della nave. Mantenere basso questo tasso di avaria vuol dire aumentare il livello di sicurezza della nave per buona parte della vita operativa della nave.

 

La tecnologia di oggi ha preso il posto del giravite che i vecchi motoristi usavano per meglio “sentire” il funzionamento di un motore, ponendolo a contatto del motore e della loro tempia.

 

Il moderno monitoraggio in presa diretta degli impianti nevralgici della nave consente di migliorare la sicurezza di tutta la nave oltre che ridurre i costi di esercizio al contrario di quanto avviene, o avveniva con il sistema, e la certificazione, della manutenzione programmata.

 

Le compagnie di armamento che stanno sul mercato hanno tutte uno standard elevato di sicurezza per quanto riguarda l’aspetto tecnico delle loro navi. La tecnica è venuta incontro alle esigenze della sicurezza ma sempre con le dovute cautele visto che non possiamo permetterci il lusso di innamorarci solo di questo aspetto.  Resta sempre l’elemento umano a farla da padrona.

 

DM – Nel precedente articolo si è parlato dei Near Miss, tecnicamente e formativamente importanti per attuare nuove norme e best practice, cosa si sentirebbe di commentare al riguardo?

 

AC – Il punto debole del Near Miss Incident è la sua rilevazione. Il conseguente trattamento, in una nave piena di carte, altre carte non farebbero altro che aumentare il carico di lavoro e questo, purtroppo, potrebbe andare a scapito della sicurezza della nave.

 

Certamente la soluzione si può trovare ma potrebbe essere un compromesso, si denunciano solo un certo numero di near miss tanto per far vedere in sede di audit che qualche cosa si è fatto, è accaduto.

 

Le normativa è oramai in vigore da diversi anni, nonostante ciò il near miss incident è sempre presente anche se sono anni che si va ad investigare la nave nel suo insieme di locali, impianti etc. trovando via via le diverse soluzioni da applicare per evitare situazioni pericolose o tendenzialmente pericolose. La ricerca delle cause di un near miss incident non è solo la ricerca dei punti più pericolosi della nave dove potrebbe, un domani, capitare un incidente ad un membro dell’equipaggio. Il near miss incident può riguardare anche situazioni che si sono venute a creare in navigazione solo perché quel sistema o quei sistemi di navigazione non sono stati utilizzati al meglio che tradotto vuol dire perché non se ne conoscevano i loro limiti e le prestazioni. A tal proposito, ricordo che l’IMO cita spesso l’over – reliance nei vari model course, peccato che non tutti ne conoscano a pieno il significato.

 

Il trattamento di questa non conformità mette la nave al riparo dal ripetersi dell’evento e, soprattutto, migliora la cultura della sicurezza e ciò fa capire che la cultura della sicurezza non è solo concetto astratto.

 

DM – Sono molti decenni che vive il settore della formazione e dell’istruzione nautica. Secondo lei ci sono, o ci sono state, compagnie che hanno brillato, se non anticipato anche delle importanti norme internazionali, relativamente alla formazione ed alla sicurezza in generale?

 

AC – Certamente e ne abbiamo già parlato. Quando le sette sorelle erano anche degli armatori le loro compagnie erano certamente all’avanguardia sia nel campo della progettazione e costruzione delle loro navi sia nella gestione delle flotte e nella formazione dei loro equipaggi. Oramai queste società petrolifere non hanno più navi e, secondo il mio parere, hanno passato il testimone alle grandi società che gestiscono navi da crociera visto che il loro carico umano rappresenta un bene inestimabile.

 

DM – In conclusione la domanda di rito. Probabilmente di crisi ne avrà viste altre, le quali magari hanno toccato da vicino anche la Nautica, questa come la vede?

 

AC – Di crisi ne ho viste, sono cicliche, dopo un numero di anni si ripresentano. La nautica da diporto è il primo settore che risente delle crisi economiche perché le barche, belle o brutte che siano, a motore o a vela non sono necessarie come il pane quotidiano. In caso di crisi economica, una barca verrà accantonata per prima e magari lasciata affondare al suo posto d’ormeggio.

 

C’è qualche segno di ripresa ma è ancora presto per dirlo.

 

Certamente dobbiamo aspettarci un prossimo periodo di ripresa, quando chi potrà si getterà a capo fitto nell’acquisto di imbarcazioni nuove o usate. Quando ciò accadrà, cantieri, officine, tecnici, marina, equipaggi dovranno essere pronti per non perdere altro tempo prezioso.

 

Non possiamo che ringraziare il Prof. Caputo per la cortese e proficua collaborazione riservataci per questa intervista, su di un argomento tecnico ma comunque molto interessante.

 

Daniele Motta

Perito e Consulente Navale
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